C’è Clara, italiana, sulla quarantina, che sul volo di ritorno dall’Havana sorride, convinta di aver trovato l’amore. E c’è Elizabeth, 50 anni, un lavoro come manager in una multinazionale, che accarezza la schiena nera del suo beach boy sulla sabbia bianca di Zanzibar, consapevole di star pagando per fare sesso e divertirsi un po’.
In Giamaica, a Cuba, in Senegal, Kenia, Capo Verde, Santo Domingo. L’elenco delle mete è lungo, basta che il paese sia povero e anche gli uomini si mettono a vendere i loro corpi alle turiste. Fino a una decina di anni fa il turismo sessuale era cosa da uomini. Stigmatizzato, condannato, soprattutto quando si traduce nelle terribili scene in Thailandia, dove vedi ragazzine (e ragazzini) anche di 10 anni costretti a prostituirsi per non morire di fame. Con le organizzazioni governative che lottano disperatamente contro il propagarsi di Hiv e di malattie sessualmente trasmissibili.
Per anni abbiamo sentito i racconti di uomini che tornavano da Cuba vantandosi di conquiste, dopo essere stati in compagnia di donne, anche molto giovani, disposte a tutto pur di fare un pasto decente e avere qualche pesos per comprarsi un paio di scarpe.
Ora il turismo sessuale piace anche alle donne. Nella maggior parte dei casi non si tratta di giovanissime ma di signore tra i 45 e i 65 anni di età, in vena di trasgressione, oppure alla ricerca dell’amore che non hanno trovato nel loro paese. Tante – troppe, oserei dire – si convincono che nel loro caso non si tratta di prostituzione.
“Lui si è innamorato di me, mi tratta come una regina, mi chiama mi amor”, mi ha raccontato Clara sospirando sull’aereo che la riportava a casa da Cuba. “Tornerò e ci sposeremo”. E poco importa se a mi amor arriveranno richieste di soldi, vestiti e oggetti che a Cuba non si trovano. Elizabeth, invece, è più pragmatica: “A Zanzibar i ragazzi non hanno denaro e io cerco solo un po’ di sesso facile senza pensieri, senza complicazioni. Li pago e loro mi danno quello che voglio”, racconta. Ma Elizabeth è un’eccezione. Per la maggior parte delle turiste si tratta di regali, di aiuti, perché “quei ragazzi sono così poveri”.
Jacqueline Sanchez Taylor e Julia O’Connell Davidson, due sociologhe inglesi, che hanno analizzato nello specifico il turismo sessuale femminile in Giamaica, intervistando 240 donne in vacanza, hanno scoperto chealmeno un terzo di loro, pur ammettendo di aver avuto una relazione con ragazzi del luogo – con regali e cene offerte generosamente -, ha categoricamente escluso di aver pagato dei “prostituiti”.
D’altro canto loro, i beach boys, chiamano le turiste “bottiglie di latte da riempire” per il colore chiaro della loro pelle. O, quando vogliono essere gentili, le definiscono Sugar Mamas.
Secondo Taylor e Davidson, la ragione per cui le donne riescono a convincersi di non aver pagato è il pregiudizio che gli uomini neri amino fare sesso con chiunque, anche con donne più anziane, e che siano dei grandi amatori. Il pensiero che siano interessate a loro per motivi economici non le sfiora nemmeno. In realtà esistono dei veri e propri tariffari. Un’ora di sesso in Giamaica costa tra i 20 e i 30 dollari, una notte intera 150, compreso il sesso orale. Nemmeno tanto a buon mercato. Con il rischio di trovare pure quello violento che ti allunga due schiaffi, come hanno denunciato molte turiste. E con il rischio di rimanere ferite nell’animo, per quelle che pensavano di trovare il grande amore.
A parlare del turismo sessuale come fenomeno è anche Paradise Love, film presentato quest’anno a Cannes. Un’analisi così spietata non la si era vista nemmeno in Verso Sud, di Laurent Cantet con Charlotte Rampling. Ma nel lavoro dell’austriaco Ulrich Seidl la protagonista è una cinquantenne piuttosto appassita, partita per il Kenya alla ricerca di una nuova rivalsa, sul piano sessuale ma anche sentimentale. All’inizio della sua avventura sembra divertirsi, pensa di essere davvero corteggiata. Ma al momento di aprire il portafoglio sembra tutt’altro che felice.
Tratto da :http://27esimaora.corriere.it
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